CRONACA – Maltrattamenti in carcere, anche Viterbo nel rapporto per la prevenzione della tortura

Da Strasburgo una nuova condanna per l’Italia. La denuncia stavolta riguarda i maltrattamenti subiti in carcere dai detenuti e anche il carcere di Viterbo figura tra quelli citati dal Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa sulla situazione in Italia. Nei rapporti, redatti sulla base di visite condotte tra il 2010 e il 2012, il Cpt elenca una serie di situazioni riguardanti i maltrattamenti subiti da persone arrestate o incarcerate indicando, inoltre, tutte le misure necessarie per individuare, indagare e condannare i casi contenuti nei due rapporti. Dopo il caso del tentato suicidio a Mammagialla del boss della ‘ndrangheta, i dati del dossier risultano ancora più scioccanti, nella loro crudezza ma anche nella fotografia evidente dello stato di degrado in cui versa l’istituto penitenziario. Nel rapporto si legge che: “nel carcere di Viterbo molti prigionieri classificati come bisognosi di vigilanza elevata o molto elevata hanno affermato che il personale del carcere controllava le loro celle poche volte e solo attraverso lo spioncino, invece di entrare nella cella e coinvolgere il detenuto in una conversazione, e che il personale spesso non ha risposto alle loro richieste di assistenza – e poi ancora – diversi detenuti con bisogno di alta sorveglianza a Viterbo sono morti per asfissia utilizzando cappi improvvisati (lenzuola, biancheria intima o elementi prefabbricati) per impiccarsi ad una finestra o ad un gancio apposto dal detenuto nel bagno della cella”. “La pattumiera del Lazio”, come il carcere Mammagialla veniva definito qualche anno fa dagli stessi operatori di polizia che vi lavoravano, la scorsa settimana era già balzato agli onori della cronaca per la storia del ventiseienne raccontata in una lettera a “Radio Radicale”. A Luciano, detenuto a Viterbo per una condanna a trent’anni per omicidio, un anno fa viene diagnosticato un tumore maligno con metastasi. Il ragazzo racconta come gli siano stati negati, per ben due volte, i domiciliari, nonostante il parere dei sanitari che certificano la sua incompatibilità con il regime detentivo. “Mi sento un condannato a morte, vegeto nella mia cella. Sono un morto vivente”. Luciano si trova nella sezione di alta sicurezza: «Dopo accertamenti, la direzione sanitaria del carcere di Viterbo certifica la mia incompatibilità con il regime detentivo, faccio istanza al magistrato di sorveglianza per ottenere la detenzione domiciliare, per evitare di morire qui dentro. Invece il magistrato rigetta la mia istanza e ho dovuto fare i salti mortali per essere curato qui dentro». Racconta d’essere stato sottoposto a dodici cicli di chemioterapia e a ventidue cicli di radioterapia. «Purtroppo non sono servite a molto, il tumore è rimasto lì». In compenso ha dovuto fare i conti con gli effetti di una terapia devastante. «Non è possibile immaginare come mi sentivo: senza capelli, il viso gonfio, poter dormire solo due ore per notte da seduto, continua nausea, difficoltà respiratorie. La direzione sanitaria del carcere ha fatto un’altra relazione dicendo di nuovo che ero incompatibile con il carcere, perché vi era un’impossibilità di gestire la mia malattia». Il magistrato di sorveglianza rigetta di nuovo la richiesta per i domiciliari, sostenendo che non c’è un concreto pericolo di morte. «Oggi io, malato di tumore, mi trovo ancora qui, chiuso in una cella e non passa giorno in cui i medici del carcere mi dicano che non possono fare più nulla. Mi sento un condannato a morte, le mie difese immunitarie non ci sono più e ho il terrore anche di prendermi una semplice influenza. Vegeto in una cella, aiutato da un compagno di detenzione. Sono un morto vivente». Questo il carcere visto dai detenuti. C’è poi anche l’altra faccia della medaglia, il carcere visto dai poliziotti. Gli stessi che, ad agosto, hanno presentato un’istanza contro il direttore dell’istituto Teresa Moscolo, accusata di avallare una linea troppo “mobida” per un carcere con detenuti in regime di massima sicurezza. La goccia che ha fatto traboccare il vaso? Le quattro aggressioni nel giro di 16 giorni avvenute a cavallo tra giugno e luglio. Insomma, una bomba ad orologeria che rischia di scoppiare da un momento all’altro se non si assumono provvedimenti tempestivi, come indicato dal comitato per la prevenzione della tortura. Simona Tenentini

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